Nel mondo iperconnesso e accelerato del lavoro contemporaneo, la sindrome da corridoio non è una metafora da romanzo distopico, ma una realtà clinica e organizzativa ormai ben documentata. Introdotta come oggetto di studio con il D.lgs 81/2008 – sì, proprio quello che dovrebbe tutelarci nei luoghi di lavoro – questa sindrome descrive una condizione subdola e trasversale: l’osmosi patologica tra vita professionale e privata.
Non è solo stress. È molto di più. È la perdita dei confini. È il non riuscire più a capire dove finisce la call Zoom con il cliente e dove inizia la cena con tuo figlio. È vivere in un “corridoio” per l’appunto, dove il privato e il professionale si rincorrono, si sovrappongono, si scontrano. E spesso, si distruggono.
Secondo l’ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro), si tratta dell’incapacità di distinguere tra la sfera lavorativa e quella privata. I “filtri” che un tempo gestivano questa separazione – orari, luoghi, rituali – sono stati erosi da tecnologie perennemente accese, smart working senza regole, e una cultura della performance che non conosce il tasto pausa.
In pratica, il lavoro entra a casa tua senza bussare. E tu, spesso, non ti opponi nemmeno.
Le ricadute sulla salute mentale e fisica sono enormi: ansia cronica, insonnia, difficoltà relazionali, burn-out, calo dell’autoefficacia. Lo testimoniano gli psicologi del lavoro, come Eleonora Valé, che descrive il fenomeno come un continuo travaso di tensioni tra casa e ufficio. Un ciclo autogenerante che si alimenta da sé: se hai litigato con il partner, ti distrai al lavoro; se hai un cliente tossico, scarichi la frustrazione a tavola. Nessuno stacca mai davvero.
Il risultato? Un’umanità in apnea, costretta a iperventilare produttività anche quando dovrebbe riposare.
Attenzione però: non è solo una questione di benessere individuale. La sindrome da corridoio ha effetti devastanti anche sulle organizzazioni. Riduce la concentrazione, aumenta l’assenteismo e, paradossalmente, abbatte la produttività che si voleva moltiplicare forzando la connessione continua.
È una bomba silenziosa per le aziende, soprattutto per quelle che si illudono di ottenere di più “tenendo tutti sempre online”.
Sì, cari imprenditori: il controllo h24 non genera efficienza, ma nevrosi. E prima o poi, qualcuno esplode. O si spegne.
Se le aziende hanno almeno la scusa della “struttura”, i liberi professionisti sono gli acrobati senza rete. Nessuno impone loro di rispondere alle mail alle 23. Nessuno li obbliga a lavorare la domenica. Ma lo fanno lo stesso. Perché “se non lo faccio io, non lo fa nessuno”, “i clienti non aspettano”, “la concorrenza è spietata”.
Così, la libertà diventa gabbia, e l’autonomia un autosabotaggio. I professionisti si costruiscono da soli quel corridoio, poi si lamentano che non trovano la via d’uscita.
Il D.lgs 81/2008 ha avuto il merito di portare il tema alla luce, ma la normativa resta in gran parte inapplicata. Le aziende fanno ancora troppo poco, i manager non sono formati, i protocolli di benessere psicologico sono voci di bilancio opzionali. E il mondo della formazione continua a propinare webinar su come essere “più produttivi in meno tempo”, senza mai chiedersi se davvero abbiamo bisogno di essere sempre produttivi.
Il punto è che ci siamo dimenticati di essere umani, prima che risorse. E questa dimenticanza non è neutra: ha un costo economico, sociale e morale.
Finché continueremo a vivere nel corridoio, accettando di lavorare nel salotto e fare terapia in ufficio, non ci sarà legge, benefit o team building che tenga. Serve una rivoluzione culturale. Serve dire “basta” alla disponibilità totale. Serve ridare dignità al tempo perso, al silenzio, alla noia.
Perché solo chi riesce a staccare, davvero, è capace di dare valore quando è connesso.
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